Legge di Stabilità: il Comma 610 sta riscrivendo la storia della cooperazione sociale di tipo B
Con la recente Legge di Stabilità 2015 (legge n. 190/2014), promossa e attuata dal Governo Renzi, sono state introdotte alcune modifiche alla legge n. 381 del 1991, istitutiva delle Cooperative Sociali. In particolare, tali modifiche riguardano il testo dell’Art. 5, Comma 1 che recitava: “gli enti pubblici possono, anche in deroga alla disciplina in materia di contratti della pubblica amministrazione, stipulare convenzioni con le cooperative che svolgono le attività di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b)[1], per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi, purché finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate”. In pratica, con tale testo, il legislatore aveva focalizzato l’attenzione sul ruolo prettamente Sociale svolto dalle cooperative sociali di inserimento lavorativo.
Il nuovo testo della norma, modificata dal Comma 610 dell’Art.1 della Legge di Stabilità 2015, prevede che: “al Comma 1 dell’Articolo 5 della legge n. 381/91, e’ aggiunto, il seguente periodo: «Le convenzioni di cui al presente comma sono stipulate previo svolgimento di procedure di selezione idonee ad assicurare il rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di efficienza».
In base a tale norma, dunque, le Pubbliche Amministrazioni e gli enti ad esse assimilati, non potranno più effettuare affidamenti diretti alle Cooperative Sociali di Tipo “B”, se non prima di aver avviato iter di scelta basati su criteri comparativi di più offerte. L’aspetto prettamente sociale ora rischia di passare in secondo piano a favore di criteri ispirati puramente al mercato.
Questo Comma, introdotto con un emendamento, è stato approvato a larga maggioranza lo scorso 23 dicembre 2014. Tre righe che cambiano tutto. Ecco perchè.
L’Articolo 5 della 381/1991 permetteva, fino all’introduzione del nuovo comma, di affidare direttamente alle cooperative sociali di tipo B appalti sotto soglia senza dover ricorrere a gare o altro genere di confronti, riconoscendo l’altissimo valore sociale che le stesse cooperative ricoprono, grazie all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate che, diversamente sarebbero relegate ai margini della società, diventando con alte probabilità un ‘peso’ per la collettività e non una ‘risorsa’ come appunto la condizione lavorativa permette.
L’Articolo 5 insomma ha consentito – il passato prossimo è d’obbligo, perché ora le cose sono cambiate – di ri-generare cittadini attivi, nonostante evidenti handicap fisici o psichici o altre forme di svantaggio e disagio sociale. Quelle tre righe al Comma 610 stabiliscono invece che d’ora in poi, prima di affidare un servizio o un lavoro, bisognerà mettere in atto ‘procedure di selezione’. Tre righe che di fatto azzerano un rapporto virtuoso fra ente pubblico (stazione appaltante) e cooperativa sociale, sviliscono e svuotano di senso la stessa cooperazione sociale di tipo B alla quale prima veniva riconosciuto un ruolo attivo nella promozione del welfare sociale, grazie agli inserimenti lavorativi. Ora il metro di valutazione è esclusivamente in un’ottica di competizione. È vero che le ‘convenzioni’ tra ente pubblico e cooperative sociali non arrivano a 1000 su tutto il territorio nazionale, ma lo strumento si è rivelato importantissimo per due motivi: in primis perché ha riconosciuto il valore sociale della cooperazione sociale, in secondo luogo perché si è tradotto concretamente in inserimenti lavorativi quasi esclusivamente attivati in ambito locale come a tradursi in welfare di prossimità.
All’origine dei numeri limitati di convenzioni attive riteniamo vi sia stata la poca predisposizione ad applicare ‘deroghe’ ancor che previste dalla norma: circostanza oggi rafforzata dal nuovo testo che, ancora più esplicitamente, indirizza a posizioni lontane dallo strumento della convenzione diretta.
La sensazione percepita è che si voglia affermare il superamento di un modello, la cooperazione sociale di inserimento lavorativo. Fuor di polemica, sarebbe stato più onesto se il Governo avesse affermato che il modello cooperativo è superato o non interessa più, piuttosto di salvare un’immagine, un’ideale di cooperazione, che poi nei fatti viene svuotata di contenuto. Un modello – lo ricordiamo con un orgoglio – che in Europa è stato studiato e copiato, fino a qualche tempo fa considerato un ‘vanto’ dell’economia italiana. Ora invece anche le cooperative dovranno – come peraltro già stanno facendo da diverso tempo – confrontarsi apertamente con il mercato ‘puro’. Dove si ‘scontreranno’ con imprese profit che, in tempi di crisi, guardano con interesse anche alla ‘fettina’ di mercato che negli anni ’90 e 2000 è stata campo piuttosto esclusivo, per i motivi sociali già menzionati, della cooperazione.
In questa nuova realtà di mercato aperto, le ‘squadre’ che si affrontano non appartengono però alla stessa categoria. Da un lato infatti le imprese ‘profit’ hanno un obbligo di assunzione di personale svantaggiato (obbligo disatteso per la maggior parte di esse) del 7% sul totale della forza lavoro; le cooperative sociali invece devono avere almeno il 30% di personale svantaggiato sul totale della forza lavoro (e sul territorio di Rimini, questa percentuale virtuosamente sale fino al 40%).
Questo lo scenario. Resta una domanda: se non c’è più spazio per la cooperazione sociale, che fine faranno i cosiddetti ‘svantaggiati’? Torneranno ad essere persone non attive, a carico della collettività? Una spesa di qualche milione di Euro all’anno (sul territorio di Rimini) che prima veniva risparmiata, e che ora invece potrebbe tornare a pesare sulle casse dei servizi sociali del comune.