Clausole sociali negli appalti pubblici: 4 milioni (di Euro) di buone ragioni

di Carlo Urbinati*

Sul sito riminiventure.it si legge che il Piano Strategico del Comune di Rimini “è un processo di programmazione dello sviluppo futuro della città basato sulla partecipazione, sulla discussione e sull’ascolto”. L’accento di questa definizione è quindi basato su due concetti: da un lato la “programmazione”, ossia la visione del lungo periodo; dall’altro la “condivisione”, ossia l’ente pubblico che si pone come motore trainante di una collettività che collabora, condivide, co-progetta, co-gestisce.

Gli appalti pubblici sono uno dei motori che muovono l’economia locale e il desiderio del CSR è che questi possano diventare più “strategici” per il territorio.

Dagli anni ’90 si è affermata la considerazione del contratto pubblico quale occasione di perseguimento di politiche pubbliche non direttamente legate alla concorrenza, un fatto che ha dato al contratto una sorta di valore aggiunto a favore del sociale e dell’ambiente. Si tratta, come poi efficacemente sintetizzato dalla Commissione europea, del cosiddetto “uso strategico” degli appalti pubblici, in risposta della componente sociale dell’essere Comunità/Unione europea, via via affermatasi con la Carta di Nizza, il Trattato di Lisbona del 2007 e la strategia Europa 2020 (crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva). La particolarità delle clausole sociali è che esse trovano legittimazione e giustificazione in un quadro generale di favore delle politiche di inclusione sociale delle persone svantaggiate tramite il lavoro generato dai contratti pubblici.

L’Amministrazione può perseguire finalità sociali, quindi, anche tramite determinate condizioni di esecuzione, ad esempio richiedendo l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Tale “clausola sociale” viene vista con favore dall’ordinamento comunitario (direttiva 2004/18/CE) ed è anzi ritenuta lo strumento principale per il perseguimento delle politiche sociali accedenti ai contratti pubblici. L’ente pubblico infatti è (o, perlomeno, dovrebbe essere) più attento a queste tematiche, proprio perché ha come obiettivo primario quello di massimizzare il benessere di tutti i propri cittadini.

In questo senso, il nostro territorio esprime politiche di avanguardia a livello nazionale. Ci riferiamo in particolare al Regolamento delle procedure di affidamento di servizi per l’inserimento lavorativo di persone in condizioni di svantaggio che il Comune di Rimini ha approvato già nel 2012. Tale Regolamento ha come finalità la promozione dell’inserimento socio-lavorativo di persone disabili e svantaggiate, e in funzione di ciò definisce, entro i limiti della potestà regolamentare esercitabile a livello comunale, una disciplina in materia di contratti per la fornitura di servizi che agevoli l’attivazione di percorsi occupazionali per dette persone.

Tale regolamento rappresenta quindi un efficace strumento di welfare perché, senza impegnare risorse aggiuntive da parte dell’Amministrazione, riesce ad ottenere un risultato significativo in termini di inserimento lavorativo di persone altrimenti assistite dai servizi sociali dell’Amministrazione stessa.

Qui sta il cuore della nostra riflessione. Come mondo della cooperazione sociale di inserimento lavorativo ci piacerebbe potere dire che le clausole sociali vengono messe negli appalti adducendo motivazioni solo etiche e sociali, spiegando quale grande risultato, in termini di welfare, sia che una persona, invece di essere assistita dai servizi sociali di un Comune, possa avere un proprio lavoro e con esso la dignità di essere cittadino a pieno titolo, che paga le tasse e contribuisce al benessere della propria comunità; e quale maggiore efficacia abbia uno strumento di welfare attivo (come le clausole sociali) rispetto ad un assistenzialismo passivo.

Oggi però, senza tralasciare queste motivazioni, che continuano a essere l’elemento cardine del nostro agire, comprendiamo l’importanza di un un ragionamento anche economico, e per farlo ci avvaliamo di una ricerca realizzata dall’Istituzione Gian Franco Minguzzi della Città metropolitana di Bologna, prendendo come caso una cooperativa sociale di quel territorio. La ricerca condotta si proponeva di evidenziare e documentare il valore sociale della Cooperazione di tipo B e dell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate. Durante la ricerca si è proceduto ad un’analisi economica della vita professionale dei lavoratori della cooperativa sociale, per giungere ad una valutazione anche economica dell’azione di inserimento lavorativo di persone svantaggiate e poter quindi verificare se tale intervento rappresenti o meno anche un vantaggio di tipo economico. Partendo dall’assunto che il soggetto in condizioni di svantaggio generalmente vive una situazione di disagio tale da non consentirgli di raggiungere autonomamente una condizione lavorativa adeguata e che, pertanto, è la società a garantirne il sostentamento, il gruppo di studio ha cercato di pervenire alla definizione dell’ammontare degli “oneri” e dei “proventi” a carico della collettività intesa in senso lato originati dall’azione della cooperativa sociale. In altre parole, si è cercato di analizzare la situazione – a prescindere dalla valenza positiva sociale universalmente riconosciuta legata ad un’integrazione sociale e lavorativa di persone svantaggiate – andando a configurarne la valenza in termini di cifre che rappresentassero entrate ed uscite di un ipotetico “bilancio della collettività”. La filosofia di fondo di questo studio non è stato certamente quello di ridurre l’attività della cooperazione sociale di inserimento lavorativo in termini meramente economici. E’ parso però utile ed interessante portare ad evidenza pubblica il ruolo e il ritorno, anche economico per la comunità, dell’attività svolta dalle cooperative sociali e, forse, contribuire ad una maggiore diffusione di questi interventi, anche perché “economicamente non penalizzanti per la collettività”.

In sostanza sono stati presi in considerazione gli effetti economici sulla collettività dovuti all’inserimento lavorativo di un soggetto svantaggiato, come ad esempio: il risparmio sull’assegno di assistenza in quanto il soggetto svantaggiato diventa percettore di un reddito; l’incasso derivante dalla tassazione ai fini delle imposte sui redditi applicata sui redditi da lavoro dipendente percepiti dalle persone svantaggiate; la sospensione dell’erogazione delle cosiddette borse lavoro di natura socio-assistenziale. La ricerca ha dato come risultato che ogni inserimento lavorativo di soggetto svantaggiato faceva risparmiare alla collettività poco più di 9mila Euro all’anno.

Per dare concretezza a questi numeri possiamo dire che, nel territorio della provincia di Rimini nel 2014, il Consorzio Sociale Romagnolo, attraverso le proprie cooperative associate, ha dato lavoro a oltre 400 soggetti svantaggiati, generando quindi un risparmio complessivo di circa 4 milioni di euro.

Ecco perché riteniamo che l’inserimento di clausole sociali sia un elemento che deve entrare nel dibattito politico e deve essere una abitudine degli enti pubblici che bandiscono appalti: perché genera valore sociale e anche risparmio economico. L’auspicio è che l’utilizzo di strumenti come il Regolamento del Comune di Rimini sia sempre più esteso nell’ambito del Comune di Rimini stesso ma anche nell’ambito del Distretto e, perché no, anche in ambito di area vasta.

*Carlo Urbinati è Vice Presidente del CSR e Presidente della Cooperativa New Horizon. Questo è il testo dell’intervento di Urbinati in occasione del convegno “Rimini Welfare. Quattro anni di approccio delle capacità dal Piano Strategico alle Politiche Comunali” che si è tenuto l’8 giugno 2015 in Sala Manzoni.

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Carlo Urbinati, Vice Presidente CSR e Presidente Cooperativa New Horizon


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