La storia di Lara, addetta alle pulizie della cooperativa CEFF di Faenza
di Alessandro Lo Bianco e Riccardo Verni
Origini e vita in Eritrea
«Vengo da una grande città dell’Eritrea», racconta Lara, con quella calma che solo chi ha attraversato troppo dolore riesce a mantenere. Da bambina la sua vita scorreva semplice: la scuola, la famiglia, il sogno di diventare medico e aiutare i genitori che riportavano diversi problemi legati al passato da militari che li aveva costretti alla guerra. Amava vestirsi di bianco «mi faceva sentire come un dottore» e credeva che lo studio sarebbe stato il suo futuro.
In Eritrea, però, per proseguire gli studi dopo il liceo bisogna passare da Sawa, un campo militare di formazione obbligatorio. Non tutti vi vengono mandati: vi accedono i giovani che desiderano continuare l’istruzione universitaria. Lara lo descrive come un luogo duro ma “organizzato”, una forma più lieve rispetto ad altri campi militari del Paese. «Almeno a Sawa hai un posto dove dormire», spiega. Ci sono regole ferree, disciplina militare, punizioni corporali per chi si rifiuta di obbedire. Le altre strutture, quelle di cui preferisce non dire il nome, le definisce invece brutali: «Lì non c’è nulla. Le persone dormono all’aperto, senza riparo, e devono sopravvivere come possono».
È in questo contesto che accade qualcosa che cambierà per sempre la sua vita. La madre di Lara si ammala, e lei chiede il permesso di andare a trovarla «senza il loro consenso non si può fare nulla, neanche ricevere cure personali quando si sta male» specifica. Ma il comandante le dice no. «Non potevo fare nulla, ma non potevo nemmeno restare ferma», racconta. Così, nonostante il divieto, decide di partire lo stesso. Riesce a raggiungere la madre e rimane con lei per giorni, finché un gruppo di militari arriva a prelevarla. Lara tenta di fuggire, ma viene arrestata.
La fuga
Il carcere, spiega, è qualcosa che «non assomiglia a nulla di conosciuto da voi in Italia». «Stanze sovraffollate, senza cibo né acqua. Ci spostavano continuamente, su camionette militari, per non farci capire dove fossimo. Non volevano che creassimo legami o trovassimo punti di riferimento, cercavano di isolare chiunque ragionasse con la “propria testa”». È proprio durante uno di questi spostamenti che avviene il momento più drammatico. Le camionette erano stipate di prigionieri, donne e uomini insieme, e Lara si trovava accanto alla sua migliore amica «era come una sorella per me». Durante uno di quei trasferimenti, lei e un piccolo gruppo decidono di tentare la fuga. Aspettano un tratto di strada sterrata, e poi, nel caos, si lasciano cadere dal veicolo in corsa. L’impatto è violento. Lara sopravvive, ma la sua amica muore sul colpo, sbattendo la testa. «In quel momento qualcosa dentro di me si è spezzato», dice. «Le mie gambe non rispondevano più. Era come se il corpo si fosse fermato insieme a lei».
Paralizzata per lo shock, viene trascinata via dagli altri fuggitivi. «Gli altri mi hanno aiutata, letteralmente mi hanno trascinato via. Mi hanno nascosta in una casa, dove una persona ci ha accolto e ci ha dato rifugio». Lì, in quella casa anonima, Lara riesce finalmente a contattare lo zio. È lui, insieme ai nonni, ad aiutarla a nascondersi per quasi due anni. «Vivevo con la paura costante di essere trovata, ma almeno ero viva».
L’Etiopia e l’inizio della rinascita
Quando la tensione tra Eritrea ed Etiopia si allenta, Lara trova una possibilità di salvezza. A organizzare la fuga sono i cosiddetti “pilot”, persone che (a pagamento) aiutano i profughi a superare i confini. «Non sempre puoi fidarti», racconta. «Alcuni lavorano per il governo e tradiscono chi cercano di aiutare. Io sono stata fortunata: il mio pilot ha mantenuto la parola». Attraversa la frontiera e arriva in Etiopia, accolta in un campo rifugiati. Per la prima volta dopo anni, sente che qualcuno la guarda non come una prigioniera, ma come un essere umano. «Mi hanno visitata, curata, mi hanno chiamata per nome». Resterà lì quattro anni, protetta e seguita, fino a quando la Comunità di Sant’Egidio le offrirà una via sicura per arrivare in Italia.
L’arrivo in Italia e la voglia di ripartire
Nel 2022 Lara arriva a Fognano, una piccola frazione di Brisighella. Il primo impatto con la nuova vita è difficile: «Venendo da una grande città, mi sentivo confusa, un po’ isolata. Non conoscevo nessuno».
Il primo lavoro lo trova in un ristorante a Faenza, ma anche qui le difficoltà non mancano. «All’inizio non sapevo parlare, non potevo comunicare. Poi ho fatto la scuola di lingua italiana e piano piano è migliorato tutto».
Lara è orgogliosa di raccontare che ha studiato con impegno per prendere la patente e che ce l’ha fatta al primo colpo: «Ora sto risparmiando per comprare una macchina, così sarò ancora più indipendente». Tramite un’agenzia le viene offerto un lavoro di pulizie presso la cooperativa CEFF, ma già anche un amico gliene aveva parlato bene: «Mi avevano detto che era un posto dove si lavora bene, con persone che ti rispettano». Nel frattempo, nonostante gli impegni lavorativi, continua a inseguire il desiderio di studiare. Nel suo taccuino annotava: «Non posso usare il mio titolo di studio perché per riconoscerlo dovrei tornare in ambasciata, e rischio».
Questo nodo – il riconoscimento delle competenze acquisite all’estero – resta uno dei tanti ostacoli alla piena integrazione professionale dei rifugiati, ma non la scoraggia. Lara ha ripreso a frequentare la scuola serale, sta affrontando il percorso di studio per la licenza di terza media e sogna ancora di ottenere un titolo di studio valido in Italia, anche se per ora è costretta a mettere tutto in pausa per mantenersi. Guardando ai suoi coetanei italiani, sorride con un velo di amarezza: «Io ho vissuto una storia dura e forse è per questo che so che il lavoro significa indipendenza: dico agli altri di rimboccarsi le maniche e impegnarsi, anche partendo da zero. Voi potete apprezzare la fortuna di scegliere il proprio lavoro ed il proprio percorso di vita».
CEFF: quando il lavoro è spazio di dignità
Associata al CSR-Consorzio Sociale Romagnolo, CEFF Francesco Bandini è cooperativa sociale nata nel 1977 a Faenza che da decenni si occupa di inserimento lavorativo e integrazione sociale di persone in condizioni di fragilità. «La Cooperativa si propone di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale», recita il suo statuto. Lara entra nella cooperativa come addetta alle pulizie: lei ha una laurea in informatica in Eritrea, conosce 5 lingue (inglese, arabo, tigrino, amarico e italiano), ma in questo momento le sue necessità e le necessità della cooperativa si incontrano su questo lavoro. Eppure, quando le chiediamo se si sente valorizzata nel suo ruolo risponde: «Si, ho incontrato un ambiente di lavoro che cerca di conoscermi e mi accetta per ciò che sono e che faccio, non per le mie origini». Nelle pulizie si lavora in squadra e per Lara essere insieme è “più facile”: significa infatti coordinarsi nelle mansioni da svolgere, condividere suggerimenti, difficoltà, successi. Il lavoro per lei rappresenta indipendenza, significa che non è più solo “rifugiata” ma “lavoratrice”. Il lavoro non è solo retribuzione, è inclusione, è spazio di comunità, è tessere nuove relazioni.
Sguardo al futuro: libertà, dignità, ruolo femminile
«Per il futuro voglio trovare la mia serenità… un lavoro che mi piace, sentirmi “normale”, senza occhi addosso, non giudicata e accettata per il colore della mia pelle e poi chissà riuscire di nuovo ad avere la mia famiglia qui, vicino a me». Essere donna per Lara significa essere fortunata, ne è orgogliosa. «A volte mi sento mamma, a volte sorella, con i ragazzi rifugiati che aiuto». E aggiunge: «Se avete la libertà qui, sfruttate il tempo che avete. Noi non possiamo tornare a casa, ma possiamo costruire qui ed essere indipendenti. Un giorno, chissà, potremmo tornare». Le Cooperative possono mostrare che un modello imprenditoriale può essere davvero sociale: dove la persona viene prima del profitto, dove la fragilità diventa forza.
Perché questa storia riguarda ognuno di noi? Perché ci ricorda che dietro ogni “rifugiato” c’è anche un lavoratore, un sogno, un’identità. Ed ecco perché una cooperativa può davvero fare la differenza: non solo assumere, ma integrare, dare valore. Perché il lavoro può essere rinascita, quando si declina in dignità e appartenenza.
Alla fine dell’intervista Lara scrive sulla lavagna:

La frase che Lara porta con sé, in Tigrino, Amarico, Inglese e Italiano.
28 ottobre 2025 (aggiornata il 19 dicembre 2025)